27/05/2009 12:19


Dannoso, costoso, insensato

Negli ultimi mesi del 2008 si è affacciata prepotentemente sulla scena mondiale una grave crisi economica. Ora, a 2009 inoltrato, questa crisi non solo sembra ben lungi dall'essere superata ma tutto lascia intendere che il peggio debba ancora venire, specie in termini di ricadute sull'occupazione, sul sociale e sul debito pubblico. Personalmente non dubitavo della gravità della situazione, poiché questa congiuntura si presentava da subito non già come una crisi ciclica simile alle tante che si erano succedute nei precedenti decenni, bensì come qualcosa di più profondo e strutturale. Credo che per trovare una situazione di pari gravità si debba tornare al 1929, l'anno della Grande Depressione. A mio modesto parere questa nuova crisi è per taluni versi anche più grave di quella di allora, perché l'economia mondiale è oggi assai più interconnessa ed interdipendente di quanto non lo fosse a quel tempo. Di meno grave rispetto ad allora, almeno per il momento, c'è che il sistema bancario è oggi in grado, entro certi limiti, di fornire maggiori garanzie sui depositi, cosa che non era nel 1929. Ma le buone notizie finiscono qui. Se solo un evento traumatico come la Seconda Guerra Mondiale permise al mondo di uscire da quella pesante recessione, ciò che a mio giudizio ci permetterà di uscire dalla crisi di oggi sarà un percorso forse meno cruento (si spera!) ma non meno impegnativo: un cambiamento del modello di sviluppo. Purtroppo, così come il mondo non uscì illeso dalla transizione di allora, così non uscirà illeso da quella di oggi. O meglio, di domani, perché questa crisi potrebbe essere non breve.

Nel mondo economicamente sviluppato la spinta esasperata della capacità produttiva ha portato ad una sovrabbondanza dell'offerta di beni rispetto alla richiesta. Questa eccessiva produttività, ottenuta fra l'altro a discapito dell'ambiente, ha a sua volta generato la necessità di "smaltire" l'eccesso cercando di incentivare in tutti modi gli acquisti, anche attraverso un massiccio ricorso al credito al consumo, credito concesso molto spesso anche in assenza di adeguate garanzie. Tutti possiedono una o più auto, uno o più telefoni cellulari, e molti, specie in taluni paesi fra cui l'Italia, possiedono una o più case. Il pensare di poter uscire dal questa fase recessiva tornando a vendere altre auto, altri telefoni o altri frigoriferi agli abitanti del "primo mondo" è quindi illusorio. Si potrebbe sperare di farlo con gli abitanti di quei paesi che un tempo erano poveri e che ora stanno entrando prepotentemente e con tutto il loro peso nel novero dei paesi ricchi, come India e Cina. Ma se per disgrazia in quei paesi ciascun abitante potesse acquistare un'auto, un frigorifero e un televisore, l'impatto ambientale ed energetico che ne deriverebbe porterebbe rapidamente al definitivo collasso un sistema ecologico già in affanno. Si potrebbe obiettare che tale impraticabilità riguardi queste auto, questi telefoni e questi frigoriferi, e che si dovrebbe produrre in modo nuovo e più eco-compatibile. Certamente in parte è così, ma è facile osservare come questo equivalga ad una transizione dall'attuale sistema di sviluppo verso un modello nuovo; e le transizioni di questa portata, si sa, non sono né semplici né rapide, né tantomeno indolori.

Il modello economico che si è imposto dal secondo dopoguerra ad oggi, basato sull'incremento della mobilità di persone e merci e sul consumo smodato di risorse alimentari ed energetiche, è giunto al traguardo e non sarà solo cambiando prodotti che si potrà superare lo stallo.

Si dice spesso che per andare avanti bisogna innovare, senza però entrare nel merito di che cosa ciò effettivamente significhi. Soprattutto, si parla sempre di innovare prodotti, o al massimo processi produttivi, qualche volta infrastrutture, ma raramente si parla di innovare flussi di lavoro e quasi mai di innovare comportamenti, faticando a riconoscere come questi siano il vero elemento abilitante verso la qualità della vita. Il fatto è che qualunque sia il mondo in cui ci troveremo proiettati al termine di questa crisi, esso sarà un mondo in cui i prodotti, ad iniziare dall'automobile, saranno probabilmente più eco-compatibili, ma soprattutto se ne produrranno ed acquisteranno di meno. E la diminuita capacità produttiva comporterà inevitabilmente l'avere in tasca meno soldi per comprare prodotti che non ci servono, o per acquistare in Italia fuori stagione un etto di asparagi provenienti dal Cile e che per giungere fino a noi hanno bruciato Dio solo sa quanto cherosene. E questo per quanto riguarda l'inutile mobilità delle merci, ma altrettanto possiamo dire dell'inutile e smodata mobilità delle persone, il cui effetto è spesso unicamente lo spreco di tempo e di carburante, ad unico vantaggio di quell'industria automobilistica che ha rappresentato il fulcro del sistema economico dell'ultimo mezzo secolo, e che non a caso oggi è fra i settori più in crisi. Se un tempo la mobilità fisica era uno degli elementi chiave dello sviluppo, da almeno dieci anni, in una economia sempre più basata sull'immaterialità delle idee e sulla comunicazione, questa mobilità serve ormai in larga misura solo per portare a spasso le teste che queste idee le contengono.

Con la diffusione planetaria delle reti di telecomunicazione e della connettività a basso costo, la rete Internet su tutte, il far viaggiare alcune decine di persone ed altrettanti aerei da un capo all'altro del globo solo per svolgere una riunione che potrebbe benissimo tenersi davanti allo schermo di un computer o alla cornetta di un telefono è semplicemente dannoso, costoso, insensato.

Per schiere di lavoratori pendolari, il farsi ore di viaggio la mattina ed altrettante la sera, in coda su strade intasate e su mezzi pubblici al collasso, semplicemente per sedersi ad una scrivania, accendere un computer ed usare un telefono è semplicemente dannoso, costoso, insensato.

In tempi in cui con pochi colpi di mouse su una pagina web si possono effettuare movimentazioni finanziarie fra un capo e l'altro del pianeta, il mettersi in coda per ore davanti allo sportello di una Pubblica Amministrazione, senza neppure avere la certezza che alla fine la pratica venga sbrigata è semplicemente dannoso, costoso, insensato.

Nella scuola, in tempi di e-mail, social networks ed SMS a pioggia: il tenere udienze in cui i genitori e gli insegnanti devono materialmente convenire nello stesso luogo fisico solo per fare due chiacchiere, e per giunta solo in un paio di occasioni in tutto l'anno scolastico; il far firmare le note e le assenze su un diario che gli studenti potrebbero anche non mostrare mai ai genitori; il non poter sapere in tempo reale se il proprio figlio quel giorno è andato a scuola o a spasso; il trascinarsi un pesante zaino fardellato pieno di libri contenenti informazioni spesso già superate al momento della stampa, fra i cui scopi principali c'è il creare i presupposti per l'acquisto della "edizione aggiornata" l'anno successivo; tutto questo è semplicemente dannoso, costoso, insensato. Tutte le informazioni che servono nella scuola, e molte di più, possono benissimo venire reperite online, dove potrebbe tranquillamente venire messa anche la lezione del giorno, magari sotto forma di un bel Wiki sul sito web della scuola, comodamente consultabile ed aggiornabile in tempo reale anche dagli studenti stessi fra una "chattata" su Facebook e l'altra.

In un'era di comunicazioni digitali che veicolano una mole sconfinata di informazioni e di occasioni di intrattenimento a costo zero, la persistenza di un canone di servizio obbligatorio per la TV pubblica, un balzello anacronistico imposto da una azienda che ancora oggi si ritiene indispensabile per garantire l'informazione, mentre in realtà nella suddetta mole di informazioni a cui le persone possono accedere quella fornita dalla RAI non è che una misera goccia nel mare, né più né meno attendibile di tutte le altre, sicuramente più lottizzata, l'unica ragion d'essere di un canone (che la RAI si ostina a definire "abbonamento", come se fosse sottoscrivibile su base volontaria) è quella di mantenere a spese dei contribuenti una struttura che non saprebbe reggersi da sola nel confronto con il mercato. Fra l'altro, l'informazione diffusa da reti TV, sia pubbliche che private, così come dai giornali cartacei (essi pure bisognosi di farsi mantenere dai contribuenti attraverso cospicui contributi di stato per continuare a produrre una carta di cui non vi è più bisogno), è ormai sempre più spesso la riproposizione di contenuti reperibili da chiunque su Internet, che non necessitano certo dell'intermediazione di TV e giornali. Il pretendere addirittura il pagamento di un canone obbligatorio per accedere a suoi "scopiazzamenti" è semplicemente dannoso, costoso, insensato.

L'idea di un diritto di autore (che, corre ricordarlo, nacque per compensare gli stampatori e non già gli autori), basato sull'idea di copyright inteso come "obolo" da versare per ogni copia riprodotta di un'opera, in un epoca di comunicazioni digitali in cui tutto si traduce in una vorticosa "movimentazione" di bit in cui la copia è endemica nei mezzi tecnologici impiegati, e dove vengono meno i concetti stessi di "copia" e di "originale", è semplicemente dannoso, costoso, insensato. In un mondo digitale interconnesso, in cui l'indicizzazione, il search e il linking sono connaturati con il mezzo e formano un tutt'uno con esso, chi vuole restringere la diffusione delle proprie opere ha un solo modo per farlo: non diffonderle. Il farlo equivale ad accettare quella che ormai è diventata la nuova natura del mondo, così come l'eseguire un pezzo musicale su una piazza a volume elevato implica l'accettare che chi si trovi nei paraggi lo possa ascoltare, senza l'obbligo di pagare alcunché e senza che ci sia alcuna violazione dei diritti del performer, che sta compiendo un atto volontario e consapevole e che non può pretendere che la gente non possa passare da quelle parti, o non possa ascoltare affacciandosi al balcone delle abitazioni che circondano quella piazza; o che se una di quelle persone è contemporaneamente impegnata in una telefonata, quella musica non possa essere ascoltata anche da chi si trova all'altro capo del filo, magari dall'altra parte del mondo. Le spasmodiche azioni repressive messe in atto dalle Major dell'entertainment, da certi giornali e da talune reti televisive per tentare di impedire tutto questo, anziché interrogarsi su modelli di business ormai non più sostenibili nell' "ecologia" dei nuovi media, costituiscono un atteggiamento dannoso, costoso, insensato. E` come se chi campa (ed anche piuttosto bene!) vendendo petrolio volesse rendere illegale l'uso dell'energia nucleare, o di quella solare, al fine di mantenere la propria indispensabilità e la propria lucrosa rendita di posizione.

Nella Pubblica Amministrazione l'arrivo delle nuove tecnologie della comunicazione e del loro enorme potenziale semplificatore ha prodotto un atteggiamento secondo cui anziché sburocratizzare le procedure si vorrebbe burocratizzare la tecnologia. Gli esempi sono tantissimi, e l'ultima "trovata" è ben descritta qui; la cosiddetta Posta Elettronica Certificata (PEC) rappresenta uno degli esempi più manifesti di come la mentalità di chi ci governa sia lontana anni luce da ciò che occorre per trarre beneficio dalle straordinarie opportunità che il nuovo mondo della comunicazione ci sta offrendo. Anziché dare ai cittadini la possibilità, molto più semplice e a costo zero, di "eleggere" a proprio "domicilio elettronico" un qualsivoglia indirizzo di e-mail già in loro possesso, con la possibilità di cambiarlo all'occorrenza, come si fa con una abitazione, si vorrebbe addirittura affidare ad un unico soggetto, che diverrebbe così ancora una volta dominante, la gestione della "e-mail istituzionale", cioè di quella PEC che solo in Italia è in (scarso) uso e che per comunicare con chiunque non può essere usata come tale ma solo come una normale casella di posta elettronica. Tutto ciò è dannoso, costoso, insensato, ma si sa che le cose a costo zero non sempre sono ben viste da tutti. Sarebbe più onesto ammettere che la PEC è stato un fallimento, e lasciarla perdere insieme alla "firma digitale", altro vistoso buco nell'acqua proprio perché frutto anch'essa della stessa mentalità "innovatrice al contrario", secondo la quale anziché identificare gli strumenti giusti e modificare le procedure in funzione di essi si vorrebbero introdurre orpelli farraginosi che incarnino in elettronico la burocrazia del cartaceo. Per semplificare davvero, e risparmiare una montagna di quattrini (cosa che come ho già detto non a tutti piace), basterebbe usare quello che c'è e che funziona già da decenni, ovvero l'e-mail "vulgaris" e le identità basate sul Web Of Trust distribuito del modello PGP, le uniche un grado di realizzare davvero, e a costo zero, tutti gli obiettivi in cui la PEC e la "firma digitale ministeriale" hanno fallito (ad eccezione di uno: il dirottare una bella montagna di soldi pubblici verso pochi soggetti "ben posizionati"). E non dimentichiamoci della cosiddetta "dematerializzazione del cartaceo", che nell'immaginario di non pochi burocrati significa solo la trasposizione in bit, di solito in formato PDF, di una copia del cartaceo, mantendo quindi quasi tutti i limiti di quest'ultimo in termini di gestibilità del contenuto informativo, cioè di machine-readability.

E potremmo continuare di questo passo per un pezzo, elencando inefficienze su inefficienze, con meccanismi protezionistici volti alla regolazione del mercato ed al mantenimento (preferibilmente con soldi pubblici) di posizioni dominanti non più sostenibili. Ma si sa che le transizioni verso il nuovo devono prima fare i conti con l'inerzia del vecchio, come la Storia non manca mai di ricordarci.

Questa volta, molto più che in passato, per superare lo stallo dell'economia mondiale occorrerà liberare risorse per agevolare un nuovo sviluppo, togliere pastoie e vincoli pur mantenendo una grande attenzione verso l'ambiente, abbattere regimi monopolistici asfissianti e superare modelli obsoleti. Fra questi l'attuale sistema di copyright è uno dei più emblematici e problematici poiché volto ad imporre un criterio di scarsità su una risorsa che scarsa non è e che costituisce l'elemento fondante della transizione in atto da una economia prevalentemente industriale ad una economia basata sulle idee. Il superamento di molte delle costose inefficienze su elencate richiede proprio una nuova libertà di circolazione dei cosiddetti "contenuti", e l'ostinarsi a difendere vecchi interessi economici debitamente camuffati con pretestuosi principi equivale al rendere solo più difficile il passaggio ad una economia più libera, più ricca e più sostenibile, basata più sull'abbondanza di contenuti e meno sulla scarsità di "contenitori".

Aggiornamento del 20/10/2010 sulla PEC: come volevasi dimostrare...

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Scritto da Carlo Strozzi | Permalink

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